VINCTUS CHRISTI JESU

SAN PAOLO E GLI APOSTOLI IN CATENE CHE RIVESTIRONO
DI CRISTO LA LORO CARNE PER PORTARLO AGLI UOMINI

29 Giugno 2019, SS. Apostoli Pietro e Paolo

V
icende che difficilmente avrei previsto solo un anno fa mi hanno portato ad abitare per qualche tempo nella zona sud di Roma, a breve distanza dalla Basilica di San Paolo fuori le mura, permettendomi di frequentare lo scrigno eretto sulla via Ostiense per conservare il corpo dell'Apostolo.

In questa basilica tutto è stato pensato per celebrare il trionfo di Cristo nella vita di Paolo: l'altare papale sovrastato dal ricco e delicato ciborio gotico, l'arco trionfale innalzato sul sepolcro dell'Apostolo, l'enormità del vuoto della navata... Sono però le umili catene della prigionia del santo, esposte in una teca sopra la lastra di marmo grezzo che nasconde alla vista le sue spoglie mortali, a raccontare nel modo più efficace la storia di questo trionfo.

È lo stesso Apostolo ad esserne stato consapevole e ad aver puntato in quella direzione ripetutamente il suo dito. “Ricordatevi delle mie catene” è la richiesta che Paolo ha la premura di vergare di suo pugno nel concludere la lettera ai Colossesi, ma è in tutti gli scritti della sua prigionia che riversa di continuo l'urgenza di esporre ai cristiani le sue catene, come secoli dopo saranno esposte ai pellegrini di tutto il mondo appena sopra il suo sepolcro.

Perché quelle catene agli occhi di Paolo sono diventate il compendio delle fatiche, delle privazioni, delle sofferenze di un apostolato vissuto con il desiderio di unirsi sempre più intimamente alla Passione del Signore (“completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo” Col 1,2) nella convinzione che la sua missione sarebbe stata feconda solo se segnata dalla morte condivisa con Cristo fino a diventare morte personale ("Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" Gl 2,20 ), fino a portarlo a vedere le stesse catene che lo stringevano al suo persecutore nella sofferenza come il dolce giogo che unisce a Cristo nella gioia (“Ora io gioisco delle sofferenze che sopporto per voi” Col 1,24).

I decenni passeranno e delle parole di Paolo si scorgerà l'eco nelle vite della generazione dei primi cristiani, che lessero il Vangelo nei volti degli Apostoli. Altre catene stringeranno i polsi di un santo vescovo del I secolo, Ignazio d'Antiochia, tenendolo “legato a dieci leopardi”, il manipolo di soldati che lo vessava trascinandolo per tutta l'Asia minore per condurlo a Roma, dove lo attendeva la condanna ad bestias. Sopra ogni cosa Ignazio, “incatenato in Gesù Cristo”, temeva che la comunità cristiana dell'Urbe si adoperasse presso l'imperatore per sottrarlo al martirio da cui era già passato Paolo (“Possa io stare sulle sue orme per raggiungere Dio”, scriverà dell'Apostolo). Il cuore della sua lettera ai romani è un appello palpitante, sofferto, affinché nulla ostacolasse la sua chiamata: “Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo”.

Ancora milleottocento anni ed agli albori della Guerra civil nella città aragonese di Barbastro 19 seminaristi ed un sacerdote dei Missionari figli del Cuore Immacolato di Maria, il più vecchio dei quali di 25 anni, sono tenuti prigionieri e seviziati da settimane dai rivoluzionari. Sono gli ultimi rimasti di un gruppo di 51 clarettiani, tutti gli altri sono già stati fucilati a scaglioni nei giorni precedenti. Passano il tempo a prepararsi al martirio, a pregare per ottenere la conversione dei loro aguzzini e la grazia della perseveranza finale, consapevoli di trovarsi nel momento in cui è a loro chiesto di dare sostanza alle parole che tante volte hanno cantato insieme nei giorni felici del seminario: «Si me disparan sangrientas balas, dárame alas el ideal. ¿Y qué ideal? Por Ti Rey mío, la sangre dar». Nel giorno del loro martirio, il 13 agosto del 1936, su un foglio di fortuna, un involucro di una tavoletta di cioccolato, riescono a scrivere una lettera indirizzata alla querida congregación: «Quando giunge il momento in cui designano le vittime, v’è in tutti noi santa serenità e il desiderio che sia scandito il nostro nome, per fare un passo avanti e collocarci nella fila degli eletti. Aspettiamo il momento con generosa impazienza e quando giunge, abbiamo visto alcuni di noi baciare le corde con cui li legavano».

Nella festa della SS.ma Trinità dell'anno 1577, nella cella della sua reclusione nel Carmelo di Toledo santa Teresa di Gesù, già giunta alle profondità della vita mistica a cui si era docilmente lasciata condurre dalla grazia, inizia a scrivere per le sue monache il Castello interiore, parola di una madre che conduce le sue figlie per mano in immersione nel mistero trascendente di Dio. Lezione sublime di vita spirituale, eppure bisogna aspettare di arrivare alla fine dell'ultimo capitolo, la settima mansione, per trovare una domanda che, ingenuamente, mi sarei aspettato di vedere risolta in principio. “Sapete cosa significhi essere spirituali?” chiede infine la santa, “Vuol dire farsi schiavi di Dio, accettare di essere marchiati col ferro, cioè con la sua croce; avendogli dato la nostra libertà, disporsi ad essere a lui venduti come schiavi di tutto il mondo, nella maniera in cui lo fu lui”.

Non deve sembrare strano che si cerchi tra le righe scritte da una contemplativa mentre ritrae l'uomo spirituale la definizione della vita attiva del missionario. Perché san Paolo e gli schiavi di Dio, le schiere di santi stretti in catene e corde che come Ignazio e i martiri di Barbastro seguirono le sue orme (“Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo” 1Cor, 11,1), furono missionari proprio perché autenticamente spirituali. Furono apostoli perché marchiati col ferro, cioè con la croce, presero parte all'immolazione di Cristo per portarlo così agli uomini rivestendo della Sua vita il nulla della loro carne mortale.
M.R.