SUL NULLA DESTINATO AL NULLA CHE CINGE D'ASSEDIO
IL MONDO E SULL'UNICA POSTURA CHE SALVA
IL MONDO E SULL'UNICA POSTURA CHE SALVA
10 Gennaio 2019, San Paolo primo eremita
C
ome
il demone di un culto orientale, anche il mondo presente per
sopravvivere a se
stesso si ritrova ad inseguire
l'equilibrio sospeso fra creazione e distruzione, a rigenerarsi
fagocitando a ritmo serrato ciò che crea, affinché sia distrutto,
affinché sia ricreato. L'Uroboro che per perpetuarsi si nutre della
sua stessa corruzione non può produrre che fragilità. Merci e idee pensate
non per durare, ma per passare. Non per soddisfare un bisogno, ma per
sollecitarne altri cento. Non per colmare un vuoto, ma per
scoperchiare abissi.
Tutta
roba nata morta che ha come sua unica prospettiva la dissoluzione, la
paccottiglia che i capannoni dell'Asia rovesciano sul mondo porta
impresso assieme al marchio una condanna a morte invisibile: una fine
rapida dopo un'apparizione ancora più fugace sugli scaffali dei bazar
fisici e virtuali, per essere nuovamente prodotta, nuovamente venduta e nuovamente
incenerita. Strisciando sulla
superficie del globo, infilando porti, stretti, strade ferrate,
dogane, l'Uroboro esce dalle sue tane ad
avvolgere vorace il pianeta intero, travolgendo gli esili ripari
degli uomini che, avidi di dissoluzione, con entusiasmo accolgono
l'orizzonte del proprio annullamento.
Quod aeternum non est, nihil est: vivere sotto l'assedio costante di un nulla destinato al nulla non rappresenta per gli assediati un memento mori in grado di spostare l'attenzione su ciò che invece non passa perché immutabile, perché eterno. Accade il contrario: la questione dell'interpretazione di questo tempo di masse di consumatori di vanità, su cui gli esegeti del mondo liquido hanno cumulato grovigli di interpretazioni, si esaurisce con mezza riga del libro di Geremia: «seguirono ciò che è vano e diventarono anch'essi vani» (Ger 2,5).
Quod aeternum non est, nihil est: vivere sotto l'assedio costante di un nulla destinato al nulla non rappresenta per gli assediati un memento mori in grado di spostare l'attenzione su ciò che invece non passa perché immutabile, perché eterno. Accade il contrario: la questione dell'interpretazione di questo tempo di masse di consumatori di vanità, su cui gli esegeti del mondo liquido hanno cumulato grovigli di interpretazioni, si esaurisce con mezza riga del libro di Geremia: «seguirono ciò che è vano e diventarono anch'essi vani» (Ger 2,5).
Il
succedersi sempre più rapido di merci, mode ed idee nate per dissolversi finisce
per dissolvere, fa indietreggiare il passato, spezza il continuum
della storia, toglie forma al vivere degli uomini.
Fare
tabula rasa
dell'esistente è l'istinto primordiale di ogni rivoluzione, la sua
aspirazione infernale: «du
passé faisons table rase», hanno
ululato le moltitudini barcollanti tra le rivoluzioni dell'Ottocento e del Novecento cantando l'Internazionale, sigla di testa dei roghi appiccati per
ridurre in cenere ciò che rimaneva del mondo di prima, del mondo di sempre.
Ancora fumanti gli ultimi tizzoni del secolo tragico, all'Internazionale succedono seducenti jingle
pubblicitari, a segnare il mutamento della praxi
rivoluzionaria. L'urto di forze antagoniste che ha caratterizzato
l'età delle rivoluzioni borghesi e il Novecento è sostituito dal fluire vorticoso
del nulla destinato al nulla
come forza neutralizzante dei tempi ultimi, dall'ateismo
assoluto presente ovunque, negli oggetti come nelle idee, per annichilire ogni anima, ogni pensiero che non sia emanazione fatua. È il grande incendio a
cui è affidato il compito di realizzare il vuoto in cui edificare
l'uomo nuovo per il mondo nuovo. L'uomo spogliato della sua anima,
per la terra unificata nella forma di un mercato senza forma.
Nel tempo in cui l'assedio assume un'ulteriore essenza per farsi digitale, senza corpo e senza limite, e proprio per questo ancora più pervasivo, rimane come non mai una sola postura che salva dall'essere precipitati nel gorgo dissolutore. Essa non
va cercata nella moderazione – che è già contaminazione – con ciò
che è vano, ma nel contemptus
mundi, il severo distacco dal perituro che permette di conservare gelosamente il cuore solo per ciò che non passa perché immutabile,
perché eterno. «So soltanto che le cose
caduche e passeggere si devono disprezzare, le cose immutabili ed
eterne ricercare» ci avverte dal fondo dei secoli Sant'Agostino (Soliloquia
I,5), che dal "Tolle et lege" in poi ha mostrato con la sua vita, prima che con i suoi scritti, ciò di cui gli uomini di ogni tempo hanno bisogno: lasciarsi condurre docilmente dalla grazia ad alimentare quella vita interiore, quell'intimità divina senza cui l'umanità è destinata a decomporsi fino a perire.